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Catia Porri - Commento alla mia intervista per il Schwarzenbach-Komplex

Si sa che con il trascorrere degli anni riaffiorano i ricordi. Quelli della mia infanzia vissuta in Svizzera mi lasciano spesso un senso di solitudine e di discriminazione. Adesso capisco le motivazioni che avevano costretto i miei genitori a prendere delle decisioni molto pesanti e difficili. Erano decisioni imposte dalle leggi che vigevano negli anni della mia infanzia e rispecchiavano un vecchio detto: mangiare questa minestra o saltare la finestra.

Naturalmente mi riferisco agli anni 60 del secolo scorso: nella stessa condizione si trovavano in quegli anni tantissimi stranieri, chiamati in Svizzera per soddisfare l'enorme richiesta di mano d'opera. Avevano il compito di incrementare lo sviluppo del Paese.

Tutt'oggi il nome Schwarzenbach, anche dopo 50 anni dall'iniziativa da lui concepita, con la quale si prevedeva di cacciare trecento mila persone, suscita, in tanti migranti, una sorta di orticaria! Era il “riconoscimento” che ci avevano riservato dopo tanti anni vissuti come esseri appartenenti a una categoria minore: braccia senza un legame affettivo, ma funzionanti. E il diritto più umano, quello di veder crescere e accudire i propri figli, era negato.

Da donna adulta ho raccontato spesso la mia storia di bambina, figlia di stagionali. Sono stata spesso invitata a parlare di quel brutto periodo vissuto da bambina nascosta, di quei lunghi giorni e mesi trascorsi in una mansarda in attesa di poter torna-re in libertà. La mia motivazione determinante è sempre stata quella di contribuire a combattere le ingiustizie e le discriminazioni, di invocare giustizia e rispetto, una giusta integrazione e il riconoscimento dei drammi provocati dalle politiche xenofobe contro gli stranieri. 

Purtroppo siamo ancora lontani da questo traguardo, ma sono convinta che anche il più piccolo passo ci porta più vicini a quello che sarà un mondo migliore.